Come al solito, quando Governo e Parlamento peccano d'indolenza, tocca agli altri organi dare una spinta all'evoluzione della società (come già fecero la Corte Costituzionale qui e la Cassazione qui).
Succede a Rimini, dove la Commissione Tributaria ha condannato una prostituta al pagamento dell’importo di 23.000 euro, a titolo di imposte evase per l’anno 2004, considerando la sua attività riconducibile a “lavoro autonomo”, alla pari quindi di un libero professionista. La CTP ha elaborato la sentenza sulla base dell'articolo 53 della Costituzione, secondo cui “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Se non sussiste lo sfruttamento della prostituta, che è reato penale, è giusto si contribuisca.
La ragazza incriminata, una 28enne di origine russa, si è difesa dichiarando di esercitare l’attività più antica del mondo, con tanto di sito internet, e ricorrendo in quanto l’esercizio della sua professione non è contemplata tra quelle soggette al pagamento delle tasse; la CTP gli ha dato torto in maniera totale, ed ha precisato che, anche se non vi è prova che i redditi accertati derivino dall’attività di prostituzione, le tasse vanno pagate allo stesso modo.
Mi complimento col Presidente della Commissione Dott. Franco Battaglino, che ha ben interpretato le norme costitutive del nostro Ordinamento; anche qui i nostri Padri Costituenti ebbero la (involontaria, forse) lungimiranza di lasciare un vuoto legislativo: l’attività meretricia non costituisce reato entro determinati limiti, e quindi se la stessa attività non è considerata illecita in egual modo deve soggiacere al pagamento delle imposte per i redditi prodotti. (parlo più nello specifico della legge Merlin, che riformò la prostituzione in Italia abolendo le Case Chiuse, qui)
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